Mio padre.
E’ quasi un anno che rifletto ormai. Parlare o non parlare di come si è stravolta la mia vita ancora, ancora e ancora dalla fine del 2018 ad oggi.
Poi oggi ho deciso di farlo. Non per esibizionismo, ma in funzione catartica. Di liberazione. Non rileggerò quello che scriverò, quindi mi perdonerete se ci saranno degli errori di vario genere.
Alla fine del 2018 divento ufficialmente disoccupata. Così decido di riprendere a studiare e rimettermi in pari per finire gli ultimi esami che mi separavano ormai da anni dalla più o meno agognata laurea. Non parlerò di questo argomento poichè divagherei troppo, ma vi basti sapere che alla fine ho deciso di completare quello che avevo iniziato.
Così inizio a fare esami a manetta, parto a bomba, con una grinta anche un po’ strana per me che non ho mai avuto tanta voglia di studiare. Mi ero detta “adesso basta, chiudiamo questo capitolo”. Nel frattempo ho modificato il mio stile di vita. Avevo molto più tempo da dedicare a me stessa: weekend fuori porta, feste di Natale in famiglia liberi da obblighi, la prospettiva di vacanze lunghe più di 10 giorni stentati, un caffè in orari insoliti con gli amici, due ore in palestra anzichè una di corsa, e così via, salite a Milano a visitare mia sorella molto più spesso, la possibilità di vivere di più i miei nipoti…
Così improvvisamente sono volati circa sei mesi. Arrivarono i miei 30 anni, una festa che avevo sempre sognato come rivincita dei 18. Lì ero piccola, polpettina, con un vestito che non mi faceva impazzire. Così ai miei 30 decisi di fare le cose non in grande, ma meglio. Non con tanti amici, ma con quelli che contano, non un vestito qualunque, ma con un vestito da sogno.
Fu una giornata strana. Mia sorella arrivò da Milano il pomeriggio per ripartire poi meno di 24h dopo pur di esserci, il tempo grigio che non mi concesse di festeggiare in terrazza ( che collera, mamma mia ). Alla fine andò tutto come doveva andare, fu una bella festa ed io ne fui entusiasta.
Ad oggi ricordo bene una strana sensazione che mi tenne sveglia dopo la festa fino alle 6 del mattino. Ero lì, sul divano di casa, da sola. A pensare. Pensai per 5-6 ore. Non so spiegarvelo bene come vorrei, ma avevo una strana sensazione addosso.
Due giorni dopo partii per Milano. Avrei dovuto starci 3 giorni e alla fine ci rimasi 10 e mi sentivo strana. Cancellai i biglietti che avevo, ne feci di altri, poi dovetti farne altri ancora. Fu un viaggio strano anche quello. Rimandavo il ritorno, ma al contempo sentivo di voler tornare prima possibile. Così aspettai di andare a Rimini in quei giorni, festeggiai il compleanno di uno dei miei migliori amici, poi quello di mia sorella e decisi di fare il biglietto del ritorno di giovedì. Vabbè torno Domeninca. No dai, giovedì 6 Giugno torno, devo studiare. Così tornai il sei giugno nel primo pomeriggio.
Il 7 sera una mia amica mi chiede di andare a ballare con due amici, andiamo! Uno di questi era Gianpiero. Visto una volta un mese prima ad una festa. Fu una bella serata, divertente quanto basta, normale fra amici. Tornammo tardissimo a casa. Il Sabato mattina quest’amica voleva andare ad Ischia per il weekend. Ero parecchio indecisa poichè ero appena tornata da Milano e non stavo con i miei da un po’, ma nell’esitazione generale iniziai a pensare a quale costume mettere in borsa.
La mia famiglia mi ha cresciuta in un certo modo: se vuoi fare qualcosa, che tu abbia 10 anni o 30, devi chiedere il permesso, con un certo margine di elasticità ovviamente. Così raggiunsi mamma e papà in soggiorno, e chiesi: “Papà, lo so che sono appena tornata, ma vi dispiace se vado ad Ischia per il weekend?” . Così papà, che era di fretta, senza avere un’incombenza di orario particolare, mi risponde che non ci fossero problemi, augurandomi un buon weekend. Si girò quasi dimenticandosi di salutarmi, ma io lo richiamai e come facevo spesso “papà, papà, dammi un bacio!”. E se ne andò.
Fu una mattina molto particolare. Non trascorse neppure mezz’ora, forse di meno, forse di più, che mi chiama mamma dall’altra stanza mentre stava per uscire anche lei per raggiungere papà dicendo che le avevano telefonato dal negozio e che papà non si era sentito bene, ma non le avevano detto molto.
Ricordo che mi arrabbiai. Mi arrabbiai come un genitore col figlio incosciente, al contrario però. Pensai che quella mattina faceva davvero troppo caldo per uscire sotto il sole bollente, che non avrebbe dovuto.
Mamma esce, mi richiama, mi vesto alla cazzo e scendo di casa. Nell’ignoranza più totale.
Ho incisi nella mente ogni attimo, secondo, minuto di quella mattina. La corsa al negozio, marcia indietro verso metà strada poichè lo avevano portato in ospedale in ambulanza ( e perchè mai? mi chiesi, per un mancamento mica si va in ospedale? ). Poi mio cugino che ci recupera in macchina che per qualche strano motivo era sotto casa. Arriviamo 5min esatti dopo di lui.
Alla reception dell’ospedale quando chiedo di mio padre vedo espressioni sconvolte sul volto degli infermieri, una concitazione strana, poi un’infermiera che correva avanti e indietro dal pronto soccorso dando particolari indicazioni da scrivere in un report, il soccorritore dell’ambulanza, giallo o bianco in volto, che mi chiede la data di nascita di mio padre. Dico a mia madre di sedersi e di avvisare mia sorella ( che era poco fuori Milano per una gita fuori porta ). Ci mettono in attesa, poi una dottoressa inizia a farmi tante domande.
Sapete, è così che succede quando succede. Toglietevi dalla testa le immagini dei film: quando succede i medici cercano di farvi arrivare alla deduzione lentamente: vengono vi chiedono informazioni, poi vanno via, poi tornano, circa per un’ora o due. Io e mia madre fuori a quel cazzo di ospedale, col pensiero a mia sorella fuori Napoli che non sapeva nulla, e lui lì dentro che non capivamo perchè non usciva. “Gli è caduta una piccola pietra in testa” ci fu detto. Mi tremano le mani mentre scrivo. Ho impiegato circa 24h a realizzare che quella piccola pietra pesava quasi una tonnellata.
Prima ancora che sapessimo nulla iniziava a venire gente in pronto soccorso. Amici, parenti. Dopo circa un’altra ora c’erano più di 100 persone a pregare in silenzio, insieme, per la stessa persona.
Così ci vengono a chiamare a me e mia madre circa 3 medici o forse erano 5, adesso davvero non saprei, insieme con mio cugino che essendo dottore, entrava ed usciva da lì per capirne di più. Ci conducono in una stanzetta, ci chiedono di accomodarci. Non parlavano. Avevano le lacrime agli occhi, si guardavano fra di loro. Alla fine mio cugino Roberto prese coraggio, dopo aver custodito per ore quel segreto senza lasciar trapelare nulla: “Zio non ce l’ha fatta”. E mi mancò il fiato. Ripetevo “no” e “non è vero” come un disco rotto. Non piansi subito. Chiamai mia sorella e glielo dissi. Iniziai a piangere. Non ho smesso per le successive ore, giorni, settimane.
Uscii fuori a prendere aria, lasciando mia madre con alcuni parenti. Mi ritrovai da sola su un muretto seduta, la testa fra le mani. I giornali, i telegiornali, il web impazzito. Tutti parlavano di mio padre.
Una piccola pietra…
Non so quanto tempo sono rimasta seduta lì fuori a piangere. Mi raggiungevano una dopo l’altra persone a salutarmi, non parlavano, mi abbracciavano, amici di famiglia che mi hanno vista crescere, non li riconoscevo. Non ricordavo i loro nomi, li guardavo senza capire. Fra i tanti accorsi ci furono poi quella mia amica con la quale dovevo partire e con lei c’era Gianpiero. Ricordo di averlo guardato e basta, preso atto che fosse lì, nulla di più. Un ragazzo visto due volte in un mese che mi fissava in piedi con le lacrime agli occhi, senza sapere chi fosse Rossella, suo padre Rosario e perchè cento persone fossero accorse al pronto soccorso a piangere lo stesso affetto mancato. Probabilmente è stato quello il momento. Il passaggio della staffetta: dal mio più grande amore… ad un altro.
Come disse mamma quando lo conobbe qualche settimana dopo: “Rossella se fosse nata maschio l’avremmo chiamata Gianpiero”.
E’ entrato in punta di piedi nella mia vita, quando anche una lacrima faceva rumore, e non ne è più uscito. Durante settimane di decine e decine di persone che facevano incursione nella nostra intimità, a casa, a salutarci. Mentre mi sentivo in una bolla di sapone che rischiava di scoppiare da un momento all’altro. Non vedevo, non ascoltavo, non sentivo, non parlavo, non respiravo. Un momento di fragilità emotiva e psicologica mai provati prima, roba da manuali universitari di psicologia, forse.
Le settimane successive, l’attesa dei funerali e tanto altro che è seguito è stato uno strazio, una privazione dell’intimità, del dolore. L’attenzione dei media asfissiante, le foto dei miei 30 anni in famiglia su tutti i telegiornali nazionali ed internazionali, copie di quotidiani che arrivavano a pacchi in casa mia. Il dolore e non il rancore che mi turbavano. Il perchè e non il come era andato via che risuonavano nella mia testa. La solitudine fra la gente, il buio attorno a me, la perdita di sicurezza, e mille altre sensazioni che facevano a pugni per venire fuori nella mia generale frastornante apatia.
Sì, lui è entrato nella mia vita senza che me ne rendessi conto, uno sconosciuto al momento giusto al posto giusto.
Ma qui inizia un’altra storia.